Tra forti e mura a Genova

20 Novembre 2020 – 13,1 km

Taccuino di marcia:

 
“Il privilegio di abitare a 30 minuti dal crinale che accoglie le fortificazioni di Genova e di sentirsi subito libera tra i monti. C’è un momento particolare nella salita, quando, percorrendo la mattonata (Salita Superiore san Simone) che mi porta a fianco della Stazione terminale della funicolare al Righi, si apre davanti allo sguardo, tra il muro della casa a destra e della fermata a sinistra, il crinale Appenninico.
Ecco, quello è il momento dell’infinito.

Stanotte è arrivata la tramontana scura che ha travolto i miei progetti: un vento freddo e tesissimo ha reso il cielo livido, pesante e triste. In poche ore la temperatura è calata; l’odore di neve e d’inverno si infila con prepotenza tra i palazzi e le vie della città, rovesciandosi verso il mare, grigio come il cielo.
Verso mezzogiorno il cielo, ripulito, è scintillante, non resisto. Mi metto in moto.

E’ il solito percorso: Forte Sperone, Forte Puin, Forte Diamante, tenendo a margine il Forte Fratello Minore. Il mare è bianco argento, a nord il Giarolo, l’Ebro, l’Antola sono bianchi per la neve caduta nella notte, bianche le nuvole lenticolari sfrangiate dal vento: l’acqua, nelle sue diverse forme fisiche, domina ogni cosa.
La strada militare che conduce al Diamante ha l’andamento lento, costante, a tornanti stetti tipico delle strade militari, che hanno addomesticato tanti passi e tanti percorsi. Salendo verso molti colli, sulle Alpi, dove si incistano i resti di casermette e punti di osservazioni, la struttura dei sentieri non cambia. Si aggrappa alle pietre col suo incedere a zig zag, resiste al tempo, alla pioggia, alle slavine.

I sentieri non sono strade.
Hanno una dignità propria, una loro fisionomia, le loro regole.
Lungo i crinali corrono veloci, aerei, regalandoti una visione filmica di ciò che ti circonda, ma infliggendoti la fatica di un ritmo impermanente. Quando il crinale si interrompe, sgravandosi in una colletta, in un passo, in una forcella, ti strappano alla quota: la discesa diventa un esercizio di umiltà, una fatica imposta che rafforza la volontà.
I sentieri di mezzacosta sono lunghi, sinuosi, costanti, rassicuranti, soprattutto quando sono avvolti dal bosco, i giochi in controluce del sole tra i rami, il verde spento o brillante dei muschi, le geometrie irregolari di quanto è lasciato ai bordi. I sentieri di mezzacosta si srotolano, talora, su erti pendii: allora è la vertigine da vincere, per andare oltre.
I sentieri di fondo valle cuciono tra loro antichi villaggi, accompagnano i fiumi, cercano il guado più facile che diventerà ponte: hanno la mestizia di chi sta sempre in basso, ma in un moto d’orgoglio guadagna la vittoria risalendo il valico, trovando un altro valle, un altro fiume, un’altra storia.
I sentieri hanno un loro perché, un loro senso profondo, una ragione di essere.
Ci sono strade inutili, ma non sentieri inutili.
I sentieri sono amici del nostro passo, poiché figli del nostro passo.
Me ne ritorno verso piazza Manin seguendo il tracciato delle mura di Sant’Erasmo, San Bernardino, San Bartolomeo. In quasi tutte le città medievali le porte e le mura era dedicate a santi o alla Vergine, come se presidio spirituale e materiale dovesse essere percepito e vissuto nello stesso modo.
L’ultimo castello che mi guida verso la fine del percorso è una invenzione architettonicamente giocosa: Castello MacKenzie, progettato da Coppedè, e realizzato tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento.
Un finto maniero neo gotico rinascimentale, costruito su un tratto di mura vere. Lungo circonvallazione a monte, tre finti manieri, punteggiano l’inizio, la fine e più o meno il centro della strada: Castello MacKenzie, appunto, Castello Bruzzo, e Castello d’Albertis.
Questi castelli sono un po’ come favole: un seme di grandezza nel tempo sbagliato.”

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